CONTENUTO
Il processo a Socrate: le accuse contro il filosofo
«La sola cosa che sappiamo sicuramente è che di lui non sappiamo nulla»: così si esprime Brunschvicg nel suo Le progrès de la conscience dans la philosophie occidentale a proposito di uno dei personaggi più conosciuti dell’antica Grecia e dell’intera storia della filosofia: Socrate. Alcuni decenni dopo, anche Hadot sosterrà nell’Elogio di Socrate una tesi simile scrivendo che «disegnare con esattezza la realtà della figura storica di Socrate è molto difficile, forse impossibile». Malgrado tale problematicità, egli è assurto a emblema del pensatore libero ingiustamente condannato a morte. Com’è noto, infatti, l’ateniese subì nel 399 a. C. un processo di cui ci informa anche Diogene Laerzio (Vite dei filosofi, 40):
Ἡ δ’ ἀντωμοσία τῆς δίκης τοῦτον εἶχε τὸν τρόπον˙ ἀνακεῖται γὰρ ἔτι καὶ νῦν, φησὶ Φαβωρῖνος , ἐν τῷ Μητρῴῳ˙ “τάδε ἐγράψατο καὶ ἀντωμόσατο Μέλητος Μελήτου Πιτθεὺς Σωκράτει Σωφρονίσκου Ἀλωπεκῆθεν˙ ἀδικεῖ Σωκράτης, οὓς μὲν ἡ πόλις νομίζει θεοὺς οὐ νομίζων, ἕτερα δὲ καινὰ δαιμόνια εἰσηγούμενος˙ ἀδικεῖ δὲ καὶ τοὺς νέους διαφθείρων. τίμημα θάνατος.
(«La dichiarazione giurata, che si conserva ancora adesso, come dice Favorino, nel Metroon, era così concepita: “Meleto, figlio di Meleto, del demo Pito, contro Socrate, figlio di Sofronisco, del demo Alopece, presentò quest’accusa e la giurò: Socrate è colpevole di non riconoscere gli dèi che la città riconosce e di introdurre altre nuove divinità; è colpevole anche di corrompere i giovani. Pena richiesta: la morte”»)
Di questi capi d’accusa si trova testimonianza anche in un’opera precedente al testo dello storico, precisamente in Apologia di Socrate, XII dove Platone riferisce che l’imputato avrebbe pronunciato le seguenti parole:
ἔχει δέ πως ὧδε· Σωκράτη φησὶν ἀδικεῖν τούς τε νέους διαφθείροντα καὶ θεοὺς οὓς ἡ πόλις νομίζει οὐ νομίζοντα, ἕτερα δὲ δαιμόνια καινά. τὸ μὲν δὴ ἔγκλημα τοιοῦτόν ἐστιν· τούτου δὲ τοῦ ἐγκλήματος ἓν ἕκαστον ἐξετάσωμεν. Φησὶ γὰρ δὴ τοὺς νέους ἀδικεῖν με διαφθείροντα.
(«L’atto di accusa è pressappoco così: Socrate – dice – è un criminale perché corrompe i giovani e non crede negli dei in cui crede la città, ma in altre entità divine di nuovo conio. Questa dunque è l’accusa: esaminiamola punto per punto. Dice che sono colpevole perché corrompo i giovani»)
Similmente in Apologia di Socrate, X Senofonte conferma che
[…] κατηγόρησαν αὐτοῦ οἱ ἀντίδικοι ὡς οὓς μὲν ἡ πόλις νομίζει θεοὺς οὐ νομίζοι, ἕτερα δὲ καινὰ δαιμόνια εἰσφέροι καὶ τοὺς νέους διαφθείροι(«[…] i suoi avversari lo avevano accusato di non riconoscere gli dèi che la città riconosceva e di introdurre invece nuove divinità, e di corrompere i giovani»)
Dalle fonti, dunque, si apprende che al filosofo vennero contestati il reato di empietà e di corruzione dei giovani. Relativamente al primo, l’accusa si basò su un decreto emanato in età periclea, precisamente nel 432 a. C., su proposta dell’indovino Diopite. La legge, emanata per colpire Anassagora, penalizzava, secondo quanto narrato da Plutarco in Pericle 32,1, sia l’ateismo sia l’introduzione di nuove dottrine sui corpi celesti. Alla luce della legislazione ateniese, Socrate fu, così, condotto in tribunale, avendo egli affermato che in alcune circostanze si verificava in lui qualcosa di divino e demoniaco descrivibile come una voce interiore che lo distoglieva dal compiere azioni che gli avrebbero arrecato danno, salvandolo dai pericoli e da esperienze negative.
Di tale δαίμωνιον (demone) gli studiosi hanno proposto esegesi contrastanti: alcuni l’hanno interpretato come la voce della coscienza, altri l’hanno considerato come un segno ultraterreno, altri ancora, chiamando ancora le categorie della psicoanalisi, hanno ipotizzato che si trattasse di un’allucinazione uditiva caratteristica di certe forme di epilessia. Per ciò che concerne, invece, il secondo motivo di incriminazione, i detrattori del pensatore sostennero che egli traviasse le nuove generazioni mettendo in discussione la morale consolidata della polis e insegnando a rendere più forte la ragione più debole. Agli occhi dei suoi accusatori, Socrate si presentava come un pericoloso sofista che predicava il relativismo dei valori.
Le motivazioni extragiudiziarie
In realtà, il filosofo non nutriva alcuna stima dei sofisti e l’accusa mossagli nascondeva preoccupazioni di natura politica: riprendendo le parole della Storia della filosofia occidentale di Bertrand Russel, «la vera ragione dell’ostilità nei suoi confronti era, quasi con certezza, la convinzione che fosse legato al partito aristocratico; la maggior parte dei suoi discepoli, infatti, apparteneva a questa classe e alcuni, in posizione di potere, si erano dimostrati molto pericolosi. Ma questa considerazione non poteva essere adottata in considerazione dell’amnistia» che fu emanata all’indomani della restaurazione democratica in favore dei cittadini compromessi con i Trenta Tiranni.
Gli esponenti della corrente democratica, saliti al potere dopo la caduta del governo oligarchico, temevano che l’abilità dialettica di Socrate avrebbe potuto minare la stabilità dell’assetto politico ateniese giacché, egli, attraverso le sue critiche alle storture della democrazia e la sua insofferenza per le assemblee che impedivano alle voci più competenti di esprimersi, avrebbe potuto diventare un punto di riferimento per personaggi di spicco quali Crizia e Alcibiade. Malgrado il suo dichiarato disimpegno politico e il suo rapporto di non totale asservimento al precedente governo dei Trenta Tiranni, egli, inoltre, era comunque considerato una figura vicina al regime da poco abbattuto.
L’ipotesi della motivazione politica appare ancor più suffragata se si considera un dato: Anito, uno dei tre accusatori di Socrate, era uno dei principali capi dei democratici: insieme a Trasibulo guidò la spedizione dei proscritti radunati a File che causò la fine del dominio dei Trenta. Nel suo agire, egli, secondo la narrazione senofontea (Apologia di Socrate, 29-30), sarebbe stato spinto, per di più, anche da rancori personali:
λέγεται δὲ καὶ Ἄνυτον παριόντα ἰδὼν εἰπεῖν· Ἀλλ’ ὁ μὲν ἀνὴρ ὅδε κυδρός, ὡς μέγα τι καὶ καλὸν διαπεπραγμένος, εἰ ἀπέκτονέ με, ὅτι αὐτὸν τῶν μεγίστων ὑπὸ τῆς πόλεως ὁρῶν ἀξιούμενον οὐκ ἔφην χρῆναι τὸν υἱὸν περὶ βύρσας παιδεύειν. […] συνεγενόμην γάρ ποτε βραχέα τῷ Ἀνύτου υἱῷ, καὶ ἔδοξέ μοι οὐκ ἄρρωστος τὴν ψυχὴν εἶναι· ὥστε φημὶ αὐτὸν ἐπὶ τῇ δουλοπρεπεῖ διατριβῇ ἣν ὁ πατὴρ αὐτῷ παρεσκεύακεν οὐ διαμενεῖν
(«Si racconta che, vedendo passare Anito, abbia detto: «Quest’uomo è pieno di orgoglio per il fatto d’essere la causa della mia morte, come se avesse compiuto un’azione grande e nobile, poiché io dissi, vedendo che la città gli rendeva i più grandi onori, che non doveva insegnare al figlio il mestiere del cuoiaio. […] Ho frequentato per breve tempo il figlio di Anito, e mi è sembrato che la sua anima non fosse priva di vigore, e di conseguenza affermo che non continuerà nell’occupazione servile che il padre gli ha predisposto»)
Il politico si sarebbe risentito, dunque, sia perché Socrate aveva dissuaso suo figlio a intraprendere il mestiere paterno sia soprattutto perché aveva criticato il suo ruolo di genitore ed educatore. Anche in Menone, 94 è riportato un diverbio tra i due scaturito all’interno di una discussione sull’insegnabilità della virtù: il filosofo, dopo aver evidenziato che Pericle, Cimone, Milziade e Temistocle non erano stati in grado di rendere i propri figli non soltanto buoni politici, ma nemmeno buoni cittadini, avrebbe ricevuto dal suo interlocutore la seguente risposta minacciosa:
Ὦ Σώκρατες, ῥᾳδίως μοι δοκεῖς κακῶς λέγειν ἀνθρώπους. ἐγὼ μὲν οὖν ἄν σοι συμβουλεύσαιμι, εἰ ἐθέλεις ἐμοὶ πείθεσθαι, εὐλαβεῖσθαι· ὡς ἴσως μὲν καὶ ἐν ἄλλῃ πόλει ῥᾷόν ἐστιν κακῶς ποιεῖν ἀνθρώπους ἢ εὖ, ἐν τῇδε δὲ καὶ πάνυ
(«Socrate, mi sembra che ti piaccia troppo dir male della gente. Se vuoi darmi retta, ti consiglierei di tenere la lingua a freno. Perché forse anche in altre città è più facile far del male agli uomini che far loro del bene, ma qui è facilissimo»)
La vicenda avrebbe avuto uno sviluppo, se è vero quanto si legge in Apologia di Socrate, 30 di Libanio:
μέγα δὲ ὑμῖν ἐρῶ τεκμήριον, ὡς ἑτέρωθεν κινούμενος τὸ ὑμέτερον προΐσταται. ἤδη γὰρ τῆς γραφῆς ἀπενηνεγμένης καὶ τῆς αἰτίας κεκηρυγμένης περὶ σπονδῶν προσέπεμπε Σωκράτει τὸν μὲν ἀξιῶν ἀποστῆναι τοῦ μεμνῆσθαι τῆς τέχνης, αὐτὸς δὲ ὑπισχνούμενος διαγράψεσθαι τὴν γραφήν. τοῦ δὲ φήσαντος οὐ παύσεσθαι τῶν ἀληθῶν, ἕως ἂν ἐμπνέῃ, χρήσεσθαι δὲ τοῖς αὐτοῖς περὶ τῶν αὐτῶν λόγοις […] οὕτως ἤδη παρέδωκεν εἰς ὑμᾶς τὸν οὐδὲν ὧν ἐνόμιζε δικαίων προδεδωκότα τῷ φόβῳ
(«Vi darò una grande prova del fatto che pone come pretesto il vostro interesse pur essendo spinto da altri motivi. Quando ormai l’accusa era stata presentata e la colpa proclamata, mandò qualcuno da Socrate per fare un accordo, pensando di distoglierlo dal menzionare l’arte e promettendo da parte sua che avrebbe cancellato l’accusa. Ma poiché quello disse che non avrebbe smesso, finché viveva, di servirsi di quei discorsi, sempre gli stessi e sempre sugli stessi argomenti, […] così ora ha consegnato a voi uno che non ha tradito per paura niente di ciò che riteneva giusto»)
Secondo tale racconto, pertanto, Anito si sarebbe irritato a causa soprattutto del rifiuto sdegnoso della soluzione di compromesso da parte del filosofo ateniese e, al fine di vendicarsi, avrebbe prezzolato Meleto affinché intraprendesse un’iniziativa giudiziaria. Quest’ultimo era un poeta tragico di origine tracia, al quale si associò si associò un terzo accusatore: il retore Licone. Essi, in base a ciò che scrive Platone in Apologia di Socrate, 23-24, furono mossi da un astio legato alla loro corporazione di appartenenza, giacché Socrate pubblicamente aveva esternato il suo disprezzo sia per i poeti sia per i retori, da lui ritenuti ignoranti e privi di professionalità:
ἐκ τούτων καὶ Μέλητός μοι ἐπέθετο καὶ Ἄνυτος καὶ Λύκων, Μέλητος μὲν ὑπὲρ τῶν ποιητῶν ἀχθόμενος, Ἄνυτος δὲ ὑπὲρ τῶν δημιουργῶν καὶ τῶν πολιτικῶν, Λύκων δὲ ὑπὲρ τῶν ῥητόρων· […] ταῦτ’ ἔστιν ὑμῖν, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, τἀληθῆ, καὶ ὑμᾶς οὔτε μέγα οὔτε μικρὸν ἀποκρυψάμενος ἐγὼ λέγω οὐδ’ ὑποστειλάμενος. καίτοι οἶδα σχεδὸν ὅτι αὐτοῖς τούτοις ἀπεχθάνομαι, ὃ καὶ τεκμήριον ὅτι ἀληθῆ λέγω καὶ ὅτι αὕτη ἐστὶν ἡ διαβολὴ ἡ ἐμὴ καὶ τὰ αἴτια ταῦτά ἐστιν. καὶ ἐάντε νῦν ἐάντε αὖθις ζητήσητε ταῦτα, οὕτως εὑρήσετε.
(«Su questa base mi hanno attaccato Meleto, Anito e Licone: Meleto irritato per i poeti, Anito per gli artigiani e gli uomini politici, Licone per i retori. […] Questa è la verità, cittadini ateniesi, e vi parlo senza nascondervi nulla, grande o piccolo che sia, e senza riserve. E so piuttosto bene che in questo modo mi rendo odioso – ma ciò è anche prova che dico la verità, che la calunnia contro di me è questa e queste ne sono le cause»)

Il sistema giudiziario ateniese
Per comprendere meglio le dinamiche dell’Atene classica, occorre spiegare che il sistema giuridico della polis non prevedeva l’esistenza di pubblici ministeri e consentiva a ogni cittadino di agire come pubblico accusatore. Presentata la denuncia, uno degli arconti aveva, poi, il compito di convocare preliminarmente le due parti per vagliare la correttezza formale dell’accusa. Successivamente, riconosciuta l’ammissibilità di quest’ultima, il medesimo magistrato fissava una data per l’indagine preliminare che avrebbe poi condotto al processo vero e proprio, rendendo pubblici i termini dell’imputazione. A questo punto l’iter giudiziario si spostava nella sede dell’Eliea, il tribunale popolare composto da 6000 cittadini (600 per ogni tribù) di età superiore ai trent’anni eletti per sorteggio. A chi doveva difendersi occorreva, dunque, una dimestichezza con l’arte di parlare in pubblico, dimestichezza che mancava a Socrate, abituato a interloquire con un singolo interlocutore. Egli stesso, secondo quanto narra Platone in Apologia di Socrate 17-18, ne era consapevole:
καὶ μέντοι καὶ πάνυ, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, τοῦτο ὑμῶν δέομαι καὶ παρίεμαι· ἐὰν διὰ τῶν αὐτῶν λόγων ἀκούητέ μου ἀπολογουμένου δι’ ὧνπερ εἴωθα λέγειν καὶ ἐν ἀγορᾷ ἐπὶ τῶν τραπεζῶν, ἵνα ὑμῶν πολλοὶ ἀκηκόασι, καὶ ἄλλοθι, μήτε θαυμάζειν μήτε θορυβεῖν τούτου ἕνεκα. ἔχει γὰρ οὑτωσί. νῦν ἐγὼ πρῶτον ἐπὶ δικαστήριον ἀναβέβηκα, ἔτη γεγονὼς ἑβδομήκοντα· ἀτεχνῶς οὖν ξένως ἔχω τῆς ἐνθάδε λέξεως. ὥσπερ οὖν ἄν, εἰ τῷ ὄντι ξένος ἐτύγχανον ὤν, συνεγιγνώσκετε δήπου ἄν μοι εἰ ἐν ἐκείνῃ τῇ φωνῇ τε καὶ τῷ τρόπῳ ἔλεγον ἐν οἷσπερ ἐτεθράμμην, καὶ δὴ καὶ νῦν τοῦτο ὑμῶν δέομαι δίκαιον, ὥς γέ μοι δοκῶ, τὸν μὲν τρόπον τῆς λέξεως ἐᾶν ‑ ἴσως μὲν γὰρ χείρων, ἴσως δὲ βελτίων ἂν εἴη ‑ αὐτὸ δὲ τοῦτο σκοπεῖν καὶ τούτῳ τὸν νοῦν προσέχειν, εἰ δίκαια λέγω ἢ μή
(«E anzi, Ateniesi, questo vi chiedo e vi supplico: se mi sentirete difendermi con gli stessi discorsi che sono abituato a fare in piazza, presso i banchi dei trapeziti, dove molti di voi mi hanno udito, e altrove, non ve ne stupite e non mormorate. Infatti così stanno le cose: sono quassù in tribunale per la prima volta a settant’anni, e perciò sono del tutto estraneo a questo modo di esprimersi. Perciò, come forse mi perdonereste, se fossi veramente straniero, di parlare con la lingua e alla maniera in cui sono stato educato, così ora vi chiedo – giustamente, mi sembra – di aver comprensione per il mio modo di esprimermi, buono o cattivo che sia»)
Nel tentativo di aiutarlo- si legge in Stobeo, Anthologium, III, 7,56-, Lisia gli avrebbe scritto un’orazione difensiva che, però, egli avrebbe rifiutato di pronunciare. Anziché ingraziarsi i giudici, il filosofo tenne un discorso provocatorio di autoesaltazione riportato da Senofonte in Apologia di Socrate, 13-17:
ἀλλὰ μέντοι καὶ τὸ προειδέναι γε τὸν θεὸν τὸ μέλλον καὶ τὸ προσημαίνειν ᾧ βούλεται, καὶ τοῦτο, ὥσπερ ἐγώ φημι, οὕτω πάντες καὶ λέγουσι καὶ νομίζουσιν. ἀλλ’ οἱ μὲν οἰωνούς τε καὶ φήμας καὶ συμβόλους τε καὶ μάντεις ὀνομάζουσι τοὺς προσημαίνοντας εἶναι, ἐγὼ δὲ τοῦτο δαιμόνιον καλῷ καὶ οἶμαι οὕτως ὀνομάζων καὶ ἀληθέστερα καὶ ὁσιώτερα λέγειν τῶν τοῖς ὄρνισιν ἀνατιθέντων τὴν τῶν θεῶν δύναμιν. ὥς γε μὴν οὐ ψεύδομαι κατὰ τοῦ θεοῦ καὶ τοῦτ’ ἔχω τεκμήριον· καὶ γὰρ τῶν φίλων πολλοῖς δὴ ἐξαγγείλας τὰ τοῦ θεοῦ συμβουλεύματα οὐδεπώποτε ψευσάμενος ἐφάνην. ἐπεὶ δὲ ταῦτα ἀκούοντες οἱ δικασταὶ ἐθορύβουν, οἱ μὲν ἀπιστοῦντες τοῖς λεγομένοις, οἱ δὲ καὶ φθονοῦντες, εἰ καὶ παρὰ θεῶν μειζόνων ἢ αὐτοὶ τυγχάνοι, πάλιν εἰπεῖν τὸν Σωκράτην· Ἄγε δὴ ἀκούσατε καὶ ἄλλα, ἵνα ἔτι μᾶλλον οἱ βουλόμενοι ὑμῶν ἀπιστῶσι τῷ ἐμὲ τετιμῆσθαι ὑπὸ δαιμόνων. Χαιρεφῶντος γάρ ποτε ἐπερωτῶντος ἐν Δελφοῖς περὶ ἐμοῦ πολλῶν παρόντων ἀνεῖλεν ὁ Ἀπόλλων μηδένα εἶναι ἀνθρώπων ἐμοῦ μήτε ἐλευθεριώτερον μήτε δικαιότερον μήτε σωφρονέστερον. ὡς δ’ αὖ ταῦτ’ ἀκούσαντες οἱ δικασταὶ ἔτι μᾶλλον εἰκότως ἐθορύβουν […] τίνα μὲν γὰρ ἐπίστασθε ἧττον ἐμοῦ δουλεύοντα ταῖς τοῦ σώματος ἐπιθυμίαις; τίνα δὲ ἀνθρώπων ἐλευθεριώτερον, ὃς παρ’ οὐδενὸς οὔτε δῶρα οὔτε μισθὸν δέχομαι; δικαιότερον δὲ τίνα ἂν εἰκότως νομίσαιτε τοῦ πρὸς τὰ παρόντα συνηρμοσμένου, ὡς τῶν ἀλλοτρίων μηδενὸς προσδεῖσθαι; σοφὸν δὲ πῶς οὐκ ἄν τις εἰκότως ἄνδρα φήσειεν εἶναι ὃς ἐξ ὅτουπερ ξυνιέναι τὰ λεγόμενα ἠρξάμην οὐπώποτε διέλειπον καὶ ζητῶν καὶ μανθάνων ὅ τι ἐδυνάμην ἀγαθόν; ὡς δὲ οὐ μάτην ἐπόνουν οὐ δοκεῖ ὑμῖν καὶ τάδε τεκμήρια εἶναι, τὸ πολλοὺς μὲν πολίτας τῶν ἀρετῆς ἐφιεμένων, πολλοὺς δὲ ξένων, ἐκ πάντων προαιρεῖσθαι ἐμοὶ ξυνεῖναι; ἐκείνου δὲ τί φήσομεν αἴτιον εἶναι, τοῦ πάντας εἰδέναι ὅτι ἐγὼ ἥκιστ’ ἂν ἔχοιμι χρήματα ἀντιδιδόναι, ὅμως πολλοὺς ἐπιθυμεῖν ἐμοί τι δωρεῖσθαι; τὸ δ’ ἐμὲ μὲν μηδ’ ὑφ’ ἑνὸς ἀπαιτεῖσθαι εὐεργεσίας, ἐμοὶ δὲ πολλοὺς ὁμολογεῖν χάριτας ὀφείλειν
(«“Certo, il fatto che il dio conosca il futuro e lo riveli a chi desidera, tutti lo credono e lo affermano, e anch’io lo sostengo. Ma, mentre gli altri chiamano “uccelli” e “parole”, “presagi” e “indovini” ciò che fornisce degli avvertimenti, io lo chiamo “divinità”, e ritengo, così chiamandolo, di parlare con più verità e spirito religioso di coloro che attribuiscono la potenza divina agli uccelli. E posso fornire questa prova del fatto che io non mento a danno del dio: pur avendo rivelato i consigli del dio a molti dei miei amici, non è mai risultato che io abbia mentito”. I giudici, nel sentire queste parole, diedero segni di scontento, gli uni perché non credevano a quello che era stato detto, gli altri per invidia del fatto che egli ottenesse dagli dèi più di quanto essi stessi non ottenessero, e Socrate riprese: “Su, ascoltate anche il resto, perché chi di voi lo desidera creda ancor meno al fatto che gli dèi mi onorano dei loro favori! Una volta che Cherefonte, a Delfi, in presenza di molti testimoni, interrogò l’oracolo al mio riguardo, Apollo rispose che non c’è nessun uomo più libero, più giusto e più saggio di me”. I giudici, naturalmente, sentendo queste parole manifestarono ancora di più il loro scontento […]. Conoscete qualcuno che sia meno schiavo di me dei piaceri fisici? Un uomo che sia più liberale di me, che non voglio accettare da nessuno né un dono né una paga? Chi potreste credere a buon diritto più giusto di un uomo che è così contento di quello che possiede da non aver bisogno di nulla che non sia suo? Chi potrebbe non definire ragionevolmente saggio un uomo che, come me, da quando ha cominciato a comprendere quel che viene detto non ha mai tralasciato, secondo le sue possibilità, di indagare e di apprendere che cosa sia il bene? E del fatto che i miei sforzi non fossero vani, non vi sembra che sia prova il fatto che molti concittadini che desideravano la virtù, e molti stranieri, scegliessero, tra tutti, di essere miei discepoli? E quale spiegazione daremo al fatto che tutti sanno che io non possiedo ricchezze per ricambiare, e tuttavia molti desiderano farmi dei doni? E che neppure una persona pretende che io le sia grato per i suoi benefici, ma molti ammettono di dovermi della riconoscenza?”»)
La condanna a morte di Socrate
Malgrado il suo tono potesse far prefigurare una condanna unanime da parte dell’Eliea, il primo dei due verdetti previsti dalla legge ateniese lo dichiarò colpevole con un esiguo scarto di voti: su cinquecento giudici soltanto la metà più trenta si espresse contro di lui. Egli stesso avrebbe sottolineato questo dato (Platone, Apologia di Socrate, 36):
οὐ γὰρ ᾠόμην ἔγωγε οὕτω παρ’ ὀλίγον ἔσεσθαι ἀλλὰ παρὰ πολύ· νῦν δέ, ὡς ἔοικεν, εἰ τριάκοντα μόναι μετέπεσον τῶν ψήφων, ἀπεπεφεύγη ἄν. Μέλητον μὲν οὖν, ὡς ἐμοὶ δοκῶ, καὶ νῦν ἀποπέφευγα, καὶ οὐ μόνον ἀποπέφευγα, ἀλλὰ παντὶ δῆλον τοῦτό γε, ὅτι εἰ μὴ ἀνέβη Ἄνυτος καὶ Λύκων κατηγορήσοντες ἐμοῦ, κἂν ὦφλε χιλίας δραχμάς, οὐ μεταλαβὼν τὸ πέμπτον μέρος τῶν ψήφων
(«Infatti io non credevo che ci sarebbe stata così poca differenza, ma molta; ora invece, come sembra, se soltanto trenta dei voti fossero caduti dall’altra parte, sarei stato assolto. A Meleto dunque, come mi sembra, sia ora sono sfuggito, sia non solo sono sfuggito, ma a chiunque (è) chiaro questo certamente, che se non fossero saliti Anito e Licone ad accusarmi, addirittura avrebbe dovuto pagare mille dracme, non avendo ricevuto la quinta parte dei voti»)
Nella seconda votazione, tuttavia, la condanna a morte fu stabilita a larga maggioranza e il filosofo trascorse in carcere trenta giorni in carcere, terminati i quali fu eseguita la sentenza: gli venne comunicato di bere la cicuta, una pianta simile al prezzemolo che procura una morte indolore a chi la ingerisce. Considerando il costo considerevole che essa aveva nell’antica Grecia e l’indigenza di Socrate, è probabile che la bevanda gli sia stata pagata dagli amici. Ricevuto l’ordine, egli si alzò recandosi in una stanza per lavarsi, seguito dall’amico Critone, e poi ritornò mettendosi a sedere e attendendo che gli portassero la bevanda letale.
Al carceriere che gliela porse egli avrebbe chiesto con ironia se si potesse usarla per libare a una divinità e, ingeritala tutto d’un fiato, si coprì il volto, secondo il costume degli antichi in punto di morte. Poco dopo, però, si scoprì e raccomando di offrire un gallo al dio della medicina, Asclepio. Queste ultime parole enigmatiche con le quali egli si congedò dal mondo sono state oggetto di interpretazioni contrastanti tra gli studiosi: per alcuni nascondono un significato filosofico da decifrare; per altri, invece, si tratterebbe semplicemente di una frase pronunciata in seguito alla perdita di lucidità mentale causata dal veleno.
BIBLIOGRAFIA
Bonazzi, Processo a Socrate, Laterza, Roma- Bari, 2018.
Giannantoni (a cura di), Socrate. Tutte le testimonianze: da Aristofane e Senofonte ai Padri cristiani, Bari, Laterza, 1971.
Pelloso- M. Beghini- I. Zambotto, Processo a Socrate: lezioni e materiali, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2023.
Ruello, Socrate. Un processo senza giudizio, Milano, Giuffrè, 2021.
Consigli di lettura: clicca sul titolo e acquista la tua copia!
- Mauro Bonazzi, Processo a Socrate, Laterza, Roma- Bari, 2018.